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Paesaggio, natura e ambiente

Paesaggio, natura e ambiente in provincia di Cosenza
Il territorio della provincia di Cosenza occupa quasi per intero la porzione centro-settentrionale della Calabria, dalla costa ionica, ad est, a quella tirrenica, ad ovest, dal Massiccio del Pollino, a nord, all’Altopiano della Sila Grande a sud. Non mancano pianure, come quella di Sibari, grandi valli, come quella del Crati, zone collinari, come quelle che digradano a nord e ad est della Sila Greca.
Alla vastità del territorio fa da contraltare la varietà dei paesaggi. E non solo per la presenza di mari e di montagne. All’interno degli stessi litorali, infatti, vi è forte diversità tra singoli segmenti di costa. Così come, ogni massiccio montuoso è del tutto dissimile dagli altri. La sensazione di disorientamento, di disambientamento che suscita nel visitatore tutto questo costituisce un elemento di grande fascino del paesaggio della provincia di Cosenza.

panoramica della piana di SibariLo sguardo di chi scende in Calabria, attraverso l’autostrada, e superi il valico di Campotenese, viene subito attratto dagli impervi costoni che risalgono, sulla sinistra del tracciato stradale, lungo i declivi della Conca del Re, verso il ripido susseguirsi di canaloni, spigoli rocciosi, rupi proterve e crinali seghettati sormontati dalla linea di cresta del Pollino e del Dolcedorme. Irradiati della luce del tramonto, questi impervi rilievi paiono una clonazione mediterranea delle Montagne Rocciose o delle Dolomiti, con le loro grigie pareti calcaree, i pinnacoli di roccia, i boschi di latifoglie che si distendono suoi loro fianchi e le formazioni di conifere dell’area sommitale. “Cattedrali grigioazzurre o rosaviola” scrive Mario Cappelli, mentre per Norman Douglas esse “sembrano fondersi, al tramonto, in una nebbia di ametista”.
Inerpicandosi lungo uno dei tanti itinerari che servivano un tempo a pastori, contadini e boscaioli, per risalire verso le terre alte del Pollino, pare di trovarsi in una regione esotica. Se poi, la buona sorte ti consente di udire il sibilo delle grandi ali di un’aquila reale che tagliano il vento, il quadro è quasi completo. A renderlo perfetto è, infatti, un ultimo elemento, il pino loricato, simbolo di queste montagne, possente conifera che, nei suoi esemplari ultramillenari, pare un gigantesco guerriero catafratto.
Nella porzione orientale del Pollino si ergono le “timpe”, imponenti montagne di roccia, che assumono la forma di immensi triedri, di oblique muraglie, di immani onde pietrificate, ed ai cui piedi scorrono torrenti impetuosi come il Raganello, la cui furia erosiva ha scavato nei millenni canyon racchiusi tra levigate ed alte pareti di roccia.
Come per incanto, oltre il crinale principale del massiccio si apre la visione senza tempo dei Piani di Pollino, una vasta conca coronata dalle principali cime del massiccio e che lo stesso Douglas raccomandò vivamente di visitare a chiunque fosse mai giunto in queste remote regioni.
C’è anche un altro Pollino (che, insieme a quello propriamente detto fa parte dell’omonimo parco nazionale), meno noto, ma forse ancor più prezioso perché conserva habitat di pura wilderness (natura selvaggia) e creature altrove ormai scomparse come l’elusivo e raro capriolo appenninico: i Monti dell’Orsomarso o Dorsale del Pellegrino.
Tale era la sua primordiale selvatichezza, che Duret de Tavel lo definì “una vasta landa abbandonata agli uccelli predatori, ai lupi ed ai cinghiali”. È La lunga dorsale montuosa che dal Valico di Campotenese scende obliquamente verso la costa tirrenica sino al Passo dello Scalone. Anche qui la roccia calcarea la fa da padrona, aggiungendo ai fenomeni carsici del Pollino, altre grotte, altri inghiottitoi, altre immense doline come quella di Piano Grande, un maestoso “catino” orlato di rilievi pietrosi (su uno si staglia anche un meraviglioso arco naturale), tappezzato di praterie sempre verdi dove pascolano, a centinaia, i cinghiali.
L’Orsomarso annovera foreste oscure ed impenetrabili, alpestri rilievi come Montea e Cozzo del Pellegrino, dai cui crinali non si scorgono segni dell’uomo, forre fluviali come quella dell’Argentino, canyon ancor più lunghi ed articolati quello dal Lao, antica via carovaniera oggi percorsa da torrentisti ed amanti dalla canoa e de rafting.
Ai piedi del versante meridionale del Pollino si estende la conca di Morano e Castrovillari, che per Giuseppe Isnanrdi è “un susseguirsi di quadri grandiosi alla Poussin”. Pare un grande ventaglio che si apre attorno al corso del Coscile e che gradualmente s’allarga verso la piana di Sibari, un tempo infestata da paludi ove, ricorda lo stesso de Tavel, si facevano cacce sensazionali, e che oggi appare tappezzata, invece, di estesi coltivi e frutteti.
Il Coscile è tributario del Crati, il “biondo” fiume della tradizione classica, alla foce del quale sorse l’antica Sibari, famosa per la raffinatezza dei suoi abitanti. Ricca, sontuosa, rigogliosa, al punto che L’Abate di Saint Non la descrisse come un “giardino delle Esperidi”, la piana disegna, sulla costa, quello che di recente è stato denominato l’Arco di Sibari, un vero e proprio golfo nel golfo (quello di Taranto), il cui perfetto semicerchio si può ammirare della colline di Trebisacce ed Albidona.
È proprio in queste colline che l’alternarsi di macchie di pino d’Aleppo e di campi di grano, il distendersi sui declivi assolati di uliveti plurisecolari, lo spandersi dei letti ghiaiosi dei torrenti, l’ergersi improvviso di querce isolate danno vita ad uno dei paesaggi agrari più arcaici del Sud Italia. Mentre le spiagge, stranamente ciottolose, accolgono, sin quasi sulla battigia, le ultime propaggini delle pinete, rallegrate anche dagli eleganti cespugli dell’agnocasto, dal lilla sgargiante degli oleandri e dal giallo diafano dei papaveri delle sabbie. 

Falesia costiera di san Nicola Arcella

Al largo di Amendolara vi è una larga secca popolata di fondali meravigliosi che, nell’immaginario collettivo, si vuole prodotta dal cumulo dei relitti della flotta di Dioniso il Vecchio di Siracusa affondata da una tempesta nel 379 a. C..
Al centro dell’Arco di Sibari s’incunea la foce del Crati, che, insieme al vicino Lago di Tarsia (sul corso dello stesso fiume, più a monte) è una delle più importanti zone umide della Calabria. Contornati da ali di ontani, pioppi e salici, ultimi residui dell’antico bosco igrofilo che ricopriva queste zone, la foce ed il lago sono rifugio ormai sicuro (vi è istituita una riserva naturale regionale) per migliaia di uccelli acquatici e per una delle ultime colonie italiane di lontra.
Più a monte, oltre la Stretta di Tarsia, il Crati, primo fiume della Calabria, serpeggia in quello che fu il Vallo del Crati, ampia vallata costellata di centri abitati, ma impreziosita, pure, di estesi frutteti, di prati, di ciuffi di alberi, e soprattutto contornata di rigogliose e verdi colline che salgono, ad ovest verso l’Orsomarso e, ad est verso la Sila Greca. “Bisogna ricordare che siamo in Calabria – scrisse significativamente - Dominique Vivant Denon - per non credersi sulle rive della Loira o della Senna”.
Tra il Crati ed il tratto più meridionale della costa jonica della provincia di Cosenza si apre la Sila Greca, la parte nord-orientale dell’altopiano. Colline, paesini d’origine albanese, boschi radi di querce, poi pendici più aderte costellate di castagni, infine, come la sommità di una grande piramide orografica, il Monte Paleparto, ammantato di folte pinete.
Ma è nelle profonde incisioni fluviali che solcano a raggiera la Sila Greca, che stanno gli scrigni naturalistici di questa porzione della provincia di Cosenza: i gradini geologici che si formano per colmare in breve spazio dislivelli anche notevoli danno vita a cascate fragorose come quelle del Cerasia, del Colognati, del Laurenzana; grandi querce puntellano, con le loro nodose radici, instabili grumi di roccia; gole formidabili, come quelle del Vulganera, del Trionto e dell’Ortiano, s’incuneano tra i monti e gorgogliano, cristallini, verso la costa. Un bosco monumentale di un centinaio di castagni ed aceri che superano gli 800 anni di vita ed i 9 metri di circonferenza, si conserva sulle pendici di Cozzo del Pesco, nelle montagne di Rossano. I tronchi cavi, i rami poderosi, le radici nodose, questi alberi giganteschi furono messi a dimora, forse, dagli monaci bizantini che popolarono il vicino, famoso Monastero del Patirion.
Il Passo dello Scalone segna il confine tra l’Orsomarso e la più meridionale Catena Costiera, che si distende parallela alla linea di costa tirrenica e prende, nel versante orientale il nome di Serre Consentine. Fitte foreste di querce, castagni e faggi ammantano questa lunga dorsale montuosa che divide le opposte valli del Crati e del Savuto dalla costa. Rilievi morbidi e selvosi si susseguono a nord intramezzati da piccoli specchi d’acqua, come il Laghicello ed il Lago dei due Uomini ove sopravvive il raro Tritone alpino.
Nella porzione meridionale, invece, si apre un articolato complesso di montagne di roccia dalle forme più pittoresche: Piatra Longa, Pietra Ferruggia, sino a quello che Isnardi definì “il glabro triedro di Monte Cocuzzo”, un poderoso rilievo calcareo la cui punta svetta ben visibile anche da grande distanza e che consente, a sua volta, uno dei panorami più vasti ed affascinanti del Sud Italia.
Il crinale della Catena Costiera era la barriera naturale che i viaggiatori dovevano superare per spostarsi dalla costa tirrenica all’interno della Calabria cosentina, soprattutto lungo l’itinerario più battuto che era quello che congiungeva Paola al capoluogo. E chi compiva questa faticosa escursione rimaneva immancabilmente incantato dinanzi allo spettacolo del mare rivelato improvvisamente nell’ordito dei boschi: “scorsi il mare ai miei piedi: ma quale mare! Rilucente, azzurro: era un cielo capovolto”, scriveva Astolphe de Custine; “attraverso le nebbie che fluttuavano in basso e in lontananza, vedevo chilometri e chilometri di spiaggia ed il confine sempre più lontano del mare e del cielo”, osservava a sua volta Gorge Gissing.
 La catena costiera tirrenica su Fiumefreddo Bruzio

Ed eccolo, finalmente, quel cielo capovolto. “Il mare, un mare sbalzato dalle correnti in toni verde intenso sull’azzurro”: così lo vedeva Leonida Repaci. Quello stesso mare cui Alberto Moravia attribuì “una bellezza mitica e primordiale”.
La costa assume qui il nome di Riviera dei Cedri per via delle piantagioni di questo singolare agrume usato, per la realizzazione di bevande e di canditi. In predicato di divenire riserva marina, questo lungo e dritto tratto di costa, è un susseguirsi di scogliere, come quelle di Fiuzzi e dei Rizzi, di strette spiagge, di calette e scogli.
Al largo, sorgono due piccole isole, ammantate di macchie di mirto ed euforbie, ciuffi di lecci, esemplari di palma nana, rare primule di Palinuro, sormontate di ripide scogliere calcaree dai vividi colori tra il giallo e l’ocra, orlate, alla base, di grotte marine fiocamente illuminate di mille iridescenze, circondate da fondali meravigliosi ove vivono gorgonie e margherite di mare, coralli e posidonie oceaniche, polpi e cernie, murene e spirografi.
Ma è la Sila Grande, ossia il cuore geografico e storico dell’altopiano silano, il luogo più leggendario ed evocatore dell’intera provincia di Cosenza.
Cantata da Virgilio nell’Eneide e nelle Georgiche, ricordata da Dionigi d’Alicarnasso per le sue straordinarie risorse naturali, la Sila Grande si estende tra le opposte valli del Crati e del Savuto ad ovest e il Marchesato ad est. Questa immensa foresta di faggi e pini larici (con anche aceri, abeti bianchi e pioppi tremuli) in alto, di cerri, castagni, ontani nella fascia intermedia, costellata di ampi pascoli, è un vero e proprio dedalo di arcadiche valli ariose e brevi dorsali montuose, dall’aspetto così nordico da aver costretto viaggiatori e descrittori ai più disparati accostamenti, dalla Scandinavia per Guido Piovene, alla Scozia ed alla Taiga Siberiana per Norman Douglas.
Al centro delle grandi valli silane sono incastonati i laghi realizzati agli inizi del ‘900 sbarrando i corsi del Mucone, del Neto, dell’Arvo, del Savuto, del Passante, mentre agli orli esterni dell’altopiano, selvagge forre fluviali incidono i fianchi dei monti con sfavillanti giochi d’acqua e mirabili architetture di roccia.
 

Francesco Bevilacqua